Riflettiamo sulla tragedia di Imperia
condannati in primo grado i due assistenti bagnanti coinvolti
IMPERIA, Liguria. Quanto è accaduto a Imperia è qualcosa di tragico, un dramma. Chiunque pratica la professione dell’assistente bagnanti dovrebbe leggere e conoscere gli eventi di quella giornata. E’ una vicenda sulla quale la Magistratura ha indagato ed è arrivata a giudizio dopo più di 5 anni condannando i due assistenti bagnanti (ancora si attendono le motivazioni).
C’è un morto e ci sono delle persone, due colleghi bagnini ed il titolare di uno stabilimento, indagati con distinti capi d’accusa.
Proviamo a ricostruire la vicenda basandoci su quanto possiamo leggere sui giornali che trattano della vicenda. A differenza dei giornali, noi di Rescue Italia non faremo i nomi dei colleghi coinvolti perché non lo troviamo assolutamente necessario. Invitiamo poi ogni bagnino a riflettere su questi fatti e farne tesoro.
Una spiaggia insidiosa in una giornata pessima. La zona dell’incidente.
Chi scrive non ha mai personalmente visitato la spiaggia dove è avvenuto l’annegamento. Dall’analisi delle immagini aeree ed altre letture capiamo che si tratta di una spiaggia di pietre a rapido declivio. Vi sono 500 metri circa di spiaggia libera non sorvegliata con due stabilimenti balneari ai limiti nord e sud della spiaggia. Una spiaggia del genere con mare mosso e vento attivo (quel giorno c’erano 25-30 nodi) crea una risacca potente con onde fino al metro che si abbattono sulla riva rendendo impossibile l’utilizzo del pattino di salvataggio. La presenza di due scogliere alle estremità ed una di minore entità nel centro della spiaggia influiscono certamente sulla corrente creando rip current vicino alle scogliere.
Tutto si svolge in meno di 7 minuti. I fatti.
Sono le ore 18,30 del 25 luglio 2015 ed il mare è agitato nel tratto di spiaggia tra lo stabilimento “Papeete” ed il Pennello. Mauro Feola, 50 anni di Diano Marina, annega nelle acque di quel tratto di mare. Da subito si parla di annegamento e non di malore. Feola, riportano vari testimoni, è entrato in mare per aiutare il figlio (15 anni) che si trovava in difficoltà a rientrare a riva. (Sanremonews.it)
E da qui le dinamiche diventano divergenti.
L’ex compagna di Feola descrive in questo modo l’accaduto all’Imperiapost.it “Mio figlio era entrato a fare il bagno, ma non riusciva più a tornare a riva e Mauro è entrato per aiutarlo. Sono entrati in acqua all’altezza del Pennello, poi però la corrente li ha trascinati sino al Papeete. Mio figlio è stato portato sino a riva dalle onde, ma il padre no. Mio figlio ha chiesto più volte ai bagnini di entrare ad aiutare suo padre e loro si sono rifiutati.” Questa versione è avvallata da alcuni testimoni come M.T., che sempre all’Imperiapost.it racconta: “Confermo, io ero sopra la spiaggia, ho visto tutto. Il bambino è uscito e ha chiesto ai bagnini di entrare in acqua. ‘Salvate mio padre, sta morendo’. L’ho sentito chiaramente, così come mia figlia che era con me.” Anche altri testimoni descrivono all’Imperiapost.it dettagliatamente la negligenza dei due assistenti bagnanti dello stabilimento Papeete.
Diversa la versione raccontata dagli assistenti bagnanti del Papeete al Riviera24.it che dichiarano di aver fatto tutto il possibile e di essersi prontamente adoperati per il salvataggio. Il libeccio aveva creato delle onde molto alte, la bandiera rossa era issata e i bagnini del Papeete già due ore prima della tragedia avevano fatto richiamato i bagnanti a riva.
Il 28 febbraio 2019 si tiene la prima udienza e viene formulata l‘accusa è di omicidio colposo. I due assistenti bagnanti dichiarano che le condizioni del mare erano estremamente impegnative. Dalle ore 17 chiedevano alle persone di non entrare in acqua. Hanno visto il pericolante in mare, hanno tentato il salvataggio lanciando un salvagente anulare con sagola di 30 metri ma non sono riusciti a raggiungerlo. Travolti dalle onde hanno rinunciato all’intervento in acqua poiché sentivano a rischio la loro vita. L’intero evento dell’avvistamento/annegamento è durato fra i 6 e 7 minuti.
All’udienza del giugno 2019 si tiene la battaglia fra periti nel tentativo di ricostruire gli eventi di quella tragica giornata. Mentre secondo l’accusa, che utilizza bollettini meteo per ricostruire le condizioni del mare, si poteva tentare un salvataggio secondo la difesa il potente beach break che caratterizza quel tratto di costa lo rendeva impossibile. Il perito della famiglia Feola, sostiene che dalla sua analisi il pericolante si trovava molto vicino alla riva per cui citiamo “quello che ho dedotto è che i bagnini, vedendo un uomo in difficoltà, a quella distanza e con quelle condizioni del mare, potevano entrare in acqua tranquillamente senza dispositivi.” Quindi se i dispositivi, salvagente anulare e/o rescue can, fossero stati di impedimento a causa delle onde il consiglio del consulente era quello di entrare senza dispositivi.
Tutti i consulenti sono unanimi sulla scarsità dell’equipaggiamento obbligatorio in dotazione. Ma le dotazioni obbligatorie erano presenti. Tenete questo elemento a mente perché ritornerà in seguito.
Il 12 febbraio 2020 viene fissata la data per la discussione finale e sentenza per i due bagnini di salvataggio ed il titolare dello stabilimento balneare: il 20 maggio 2020 a quasi cinque anni dall’annegamento di Feola ma a causa dell’emergenza Covid-19 si va a settembre 2020. Intanto l’Assicurazione Unipol Sai ha versato a titolo di indennizzo 400.000 euro ai familiari del deceduto.
Un elemento fondamentale che trapela dalla lettura degli articoli e da cui si può ricostruire quanto detto in aula è che i bagnini avrebbero dovuto effettuare l’analisi delle condizioni dei fondali della baia e dotarsi preventivamente di strumentazione facoltativa quale caschetto e rescue tube, circostanze che sono state, inserite nel capo di imputazione. La presenza ed utilizzo di questi due strumenti, non previsti dall’Ordinanza di Balneazione, sarebbe dovuta scaturire dall’analisi dello scenario da effettuare a inizio stagione (deduciamo, NdA). La presenza di una scogliera e di fondale roccioso avrebbe imposto agli operatori (ed il titolare) l’adozione di strumentazioni volte a limitare il rischio per gli operatori del salvataggio ovvero il caschetto ed il rescue tube che permette di affrontare in modo meno pericoloso l’eventuale collisione con la scogliera (frapponendolo fra il corpo e la roccia).